giovedì 25 aprile 2024

Eritrea, un viaggio nel tempo

Al momento dell’atterraggio, scrutando fuori dal finestrino, il paesaggio mi fa subito pensare, forse capire, che questo posto debba essere speciale, quasi unico. I miei occhi, infatti, cadono su una immensa distesa arida, secca, con case basse, antiche, per non dire vecchie, sparse qua e la e…un relitto di aereo abbandonato, proprio li, a bordo pista, dove stiamo atterrando. Uno strano benvenuto, insomma, in un paese che, diversamente da altri del continente nero dove sono atterrato, non mi mostra subito baracche, capanne, oppure mega edifici che scimmiottano quelli delle nostre città. No, qui l’idea che sale subito alla mente è quella di una realtà ferma a qualche decennio fa, non decadente, fatiscente, semplicemente…vecchio. E questa idea è confermata poco dopo, quando entrando in aeroporto, tutto appare più calmo, meno frenetico, isterico, rispetto al “nostro” mondo moderno. Oserei anche dire troppo calmo per i miei gusti: per quanto non sia un isterico, sempre di corsa, sempre sotto pressione, l’attesa al controllo passaporti (per fortuna la federazione è venuta in pompa magna ad accoglierci, semplificandoci nettamente le cose, prendendo i nostri passaporti in mano e gestendo tutte le pratiche) e quindi quella alla consegna bagagli è infinita. Ma nessuno si agita, nessuno si lamenta: aspettano. E allora aspettiamo anche noi quasi un’ora, quando poi, lentamente ovviamente, i nostri bagagli appaiono sul nastro trasportatore. Via allora, verso l’hotel. Tre minuti cronometrati ed eccoci al “lussuoso”, almeno cinquant’anni fa, asmara hotel palace dove resto giusto il tempo per cambiarmi di abito e uscire a correre: il presidente, infatti, ci verrà a prendere tra due ore e siccome a me di mangiare interessa proprio poco, ne approfitto per una bella corsa rigenerante di 45 minuti, per iniziare la mia scoperta della capitale. E rimango stupito: pur nella mia ignoranza, conoscevo per lo meno a grandi linee anche prima di atterrare in Eritrea la storia della colonizzazione italiana nel paese, ma imbattermi ad ogni angolo in bar dal nome italiano (bar vittoria, bar aosta, bar della posta…), in hotel anch’essi con nomi famigliari (alla scala, bologna…) e soprattutto in edifici chiaramente, evidentemente, frutto del periodo fascista, mi colpisce positivamente. Anche se in me persiste un po’ di timore circa i sentimenti che possono accompagnare gli eritrei rispetto a noi italiani, considerando i sessant’anni in cui abbiamo occupato il loro paese. Ma giorno dopo giorno scopro che il ricordo è positivo, tutti gli anziani con cui ho parlato e che parlano italiano (chi ha studiato al collegio italiano, chi lavorava con italiani, chi semplicemente lo ha appreso in strada) hanno condiviso con me loro ricordi piacevoli di quei tempi, esperienze positive avute con gli italiani che hanno occupato queste terre. E che hanno costruito la capitale, si può dire: perché Asmara, la piccola Roma (ma molto piccola) è stata costruita quasi totalmente dagli italiani, che gli hanno dato la configurazione attuale. E correndo oggi per il viale principali la sensazione è proprio quella di essere a casa, ma…almeno cinquanta, sessanta anni fa! Tutto è piuttosto decadente, avrebbe bisogno di una sistemata, di una rinfrescata, in alcuni casi cade a pezzi. Insomma, si percepisce, si coglie la bellezza di un tempo, ma quella bellezza, ahimè, è ormai decaduta e per quanto rimanga affascinante, ti fa capire un po’ lo stato attuale delle cose.

Ma non ho più tempo: la corsa si conclude come previsto dopo 45’, ora ho giusto il tempo di una doccia e poi alle 14 si inizia il corso: 39 insegnanti di educazione fisica provenienti dalle 6 province del paese, più 16 allenatori della federazione (responsabili regionali per la federazione, o allenatori grassroots) ci stanno aspettando. E allora, via, che si cominci. 

Zimbabwe

 Finalmente mi fermo un attimo e come sempre mi succede quando riesco a staccare la spina, crollo! Tutta la stanchezza accumulata in questi dieci giorni tra zambia e zimbabwe, senza un giorno di recupero, mi presenta il conto e così, bloccato su questa seggiola in attesa del volo di ritorno, riesco a rimettere un po' insieme le esperienze di questi giorni. 

Gran bei giorni. Anche qui ad Harare ho incontrato gente splendida, sempre sorridente, pronta alla battuta, disponibile ed entusiasta, nonostante le non semplici condizioni in cui vivono. Alcuni allenatori per venire al corso hanno impiegato quasi un giorno, 18 ore di "public transportation", poiché residenti in alcuni villaggi lontanissimi dalla capitale, eppure...super motivati, sorridenti, eccoli tutti i giorni in aula e in campo con un carico di energia e di entusiasmo invidiabile. Altri, più "fortunati", han dovuto affrontare meno strada, ma si son dovuti scontrare coi prezzi assurdi della grande città. Assurdi, fuori controllo, da quando la moneta locale è stata dichiarata illegale (eppure al mercato, per strada, per copi, il taxi collettivo, si usa ancora) ed è stato imposto il dollaro americano come moneta ufficiale, al punto che a fronte di uno stipendio medio di 3oo$ al mese, un affitto costa mediamente 150$, una cena fuori (lo so che non è un metro di paragone per questo lato di mondo, il ristorante, ma per capirci meglio) va dai 30 ai 70$, un litro di benzina costà 1,5$...insomma, la situazione è fuori controllo. Non so davvero come facciano a vivere, a sopravvivere, eppure rimangono positivi, allegri, aperti e disposti a ridere, ad affrontare tutto questo con il sorriso, con la certezza (non so da dove derivi) del fatto che comunque ce la faranno. Se penso alle mie ansie da stipendio, da mutuo, spese famigliari, non posso che prender tutto ciò che un grande insegnamento.

domenica 3 marzo 2024

WHAT A DAY!!!

 Madonnina che giornata! Infinita e incredibile, ricca di incontri e esperienze uniche, che spero di portare con me per tutta la vita. E se non dovessi ricordarmi...ecco l'utilità del blog. Dovrò "solo" risalire alla data di pubblicazione della storia. 
Andiamo per ordine: classica sveglia, sempre la solita in trasferta o a casa, 6:30; circuito per il ginocchio, lavoro per i piedi, colazione e via, verso lo stadio. Oggi ci aspettano 100 bambini e i nostri 48 allenatori, formati in questi giorni, per la giornata finale, il festival, ossia 9 stazioni con 9 esercizi diversi e i bambini che ruotano tra essi divisi in gruppi da 10/12. Son contento, la gente qui è super positiva, allegra, amichevole, i coach educators si son dimostrati interessati, coinvolti, ben disposti fin da subito, e soprattutto pronti alla battuta, allo scherzo. Fortissimi. Quando hai una classe così viene naturale dare il 110% per loro, cercare di fare di tutto e di più affinché capiscano la metodologia , facciano propri consigli, idee per gestire al meglio le sedute di allenamento, interiorizzino al massimo i concetti che stiamo loro trasmettendo, perché vedi la passione, la volontà che si scontra con la scarsezza di mezzi, di opportunità. E quindi viene naturale svegliarsi carichissimo, super contento di andare al campo. E allora via, verso lo stadio. Il sole è bellissimo, il cielo di più, con le sue nuvole bianche a fare da contraltare all'azzurro acceso che lo caratterizza in questo lato di mondo. Preparo i campi, divido gli allenatori, divido i bambini, ma...cacchio, ce ne sono una decina che aspettano solo di giocare, ma che, non essendo delle scuole parte del progetto, il TD (technical director) non ha messo nel gruppo che poi ho suddiviso in squadre. Quindi? Faccio partire il festival, mi avvicino loro, ne prendo due alla volta e li butto nella mischia, senza farmi notare da Antonio, il mio collega. Un bravo ragazzo, mi trovo benissimo con lui, ma a volte un po' troppo...rigido, precisino. Per cui meglio non renderlo cosciente di questa cosa. Via così, giocate. E alla fine questi 10 bimbi, tra cui due bimbe, son quelli che si divertono di più: in ciabatte (si, davvero. In ciabatte. Con le crocs ai piedi!!!) alcuni, a piedi nudi gli altri, tutti sono strapresi dagli esercizi e tutti si impegnano alla morte per domare quell'attrezzo sferico che tanto ammalia, ma che anche tanto difficilmente si riesce a gestire. Una energia indescrivibile fuoriesce da questo campo per 90 minuti, al termine dei quali inizia la parte che sempre odio: GS (segretario generale), Presidente, ministro dell'educazione e dello sport lanciano ufficialmente il progetto nel paese e, come tanto piace in Africa, non si risparmiano con  discorsi e ringraziamenti! Madonnina che sonno. Per fortuna mi sono defilato per tempo e ho lasciato vuota la mia sedia sul palchetto per sedermi in mezzo a bambini e allenatori, per cui le mille ore di discorsi vari passano relativamente veloci ridendo e scherzando con le persone. 
Concluso il tutto, salutati tutti, bambini e allenatori, ci muoviamo con Laizon, il TD: gli abbiamo chiesto di portarci in giro per Lusaka per assaggiare un po' dell'autenticità di questo posto e lui, ben contento, nato e cresciuto in un compound della città, ci porta subito al suo quartiere. Casette di mattoni, altre di lamiera, strade polverose e...gente ovunque. Ma tantissima gente! Incredibile! Camminiamo un po' fermati da bimbi incuriositi (uno mi chiede: are you african? No, I'm from italy. Ohh, i see. I'm from zambia!) per poi fermarci in un "ristorante" dove mangiamo in puro stile locale con le mani pesce, carne e anatra, con verdure varie di contorno; il tutto accompagnato da mshish (chissà se si scrive così), una cosa bianca un po' appiccicosa, poco saporita,  fatta col mais, che si usa al posto delle forchette. Ne fai una pallina, la rendi una specie di cucchiaio e prendi con questa cosa tutto ciò che hai nel piatto. Piatto condiviso, ca va san dire, coi commensali. Insomma, se non mi cago addosso questa notte, posso star tranquillo per il resto della vita. 
Finito il pranzo riprendiamo l'esplorazione del quartiere e ad un certo punto una palla rimbalzante arriva a me: un gruppo di bambini sta giocando in uno spazio di terra e sassi e io son capitato li vicino. Palleggio un po', mi avvicino al gruppo, quindi lancio loro il pallone. Immediato il pensiero mio e di Antonio: abbiamo una decina di palloni in macchina! Prendiamone uno e diamolo loro (anche due), così mandano in pensione questo vecchio attrezzo ormai poco rimbalzante. E due minuti dopo siamo in campo anche noi...col pallone vecchio. Quello nuovo è troppo bello per essere usato qui! Stupendo. Che magia unica, che emozioni è in grado di regalarci questa palla. Mentre gioco torno con la mente a Tabiago, alle partite infinite in strada, con le linee del fuori invisibili agli esterni, ma ben chiare a tutti noi, con il muretto che fungeva da sponda nelle situazioni di 1<1 e con le regole nostre, solo nostre e che nessun esterno poteva capire. Madonnina che bello giocare a calcio. Alla fine io e i miei 4 compagni vinciamo, ma poco importa: grazie bimbi, era da novembre che non giocavo, da quando son stato operato, e grazie a voi son tornato a godere della bellezza di quella palla!
Ripartiamo, sudati e contenti: alle 17:30 c'è il derby di manchester e vogliamo godercelo in un posto "autentico", ma dobbiamo sbrigarci, se no non troviamo posto. Qui son tutti matti per il calcio inglese, in giro tutti indossano maglie della premier (ne ho viste anche del Brighton di de zerbi!) e il posto dove ci vuol portare è piccolo...ma stupendo! Siamo gli unici due mzungo nel raggio di un paio di km, ma la cosa non mi disturba per nulla e non disturba loro. L'atmosfera è bellissima e la partita lo è altrettanto. Me la godo fino in fondo, con un paio di birre di contorno, sul nostro tavolino di plastica, con la nostra televisione che gracchia e con i tifosi intorno che ridono e incitano i red devils...peccato che il man city domini e alla fine vinca 3-1. Ma a loro sembra importare poco. E a me anche meno. 
Mi godo tutta questa giornata ora, mentre scrivo, e ancora una volta mi domando se merito davvero tutta questa fortuna. Ma mentre cerco la risposta, mi godo ogni secondo.  

giovedì 29 febbraio 2024

Tempus fugit

 A volte, anzi molto spesso, mi ritrovo a guardare il calendario, ad osservare la data del giorno, e a pensare: "wtf! come cacchio è possibile? Siamo a marzo???". E una sensazione terribile mi assale. Un misto tra paura e sgomento, tra ansia e preoccupazione: cazzo, siamo già a marzo, son successe mille cose in questi tre mesi, tutte bellissime come spero sarà per tutta la vita, inshallah, e io...le ho vissute tutte? ho goduto ogni attimo, ogni secondo di queste esperienze? O l'incessante succedersi degli eventi mi ha impedito (che sia una scusa dar la colpa al tempo, per non cercare una soluzione vera?) di capire veramente quanto di bello mi stava accadendo e quindi di respirare ogni attimo di queste esperienze? Lo penso e lo scrivo spesso: siamo tutti nella stessa barca, non sono io speciale e siamo tutti in un maledetto frullatore che ci gira, rigira, sbatte e risbatte, travolti dagli eventi e incapaci di fermarci e vedere, sentire, vivere l'attimo. Sud Sudan, rientro in Italia, sto a casa 18 ore (atterro la mattina, riparto la sera), via verso il Congo, rientro, sto a casa non so nemmeno più quanti giorni e via, di nuovo in aereo, kuwait, bahrain, oman. Rientro, a casa un'altra manciata di ore e di nuovo in volo, direzione Zambia e Zimbabwe. E in mezzo la scuola, i laboratori del liceo da portare avanti, la giornata dello sport da definire, la società sportiva con i nuovi corsi che partono... ripeto, non sono io speciale, siamo tutti nello stesso frullatore. E ciò che ci rimette per tutti è la famiglia: Margherita non perde occasione per dirmi "basta andare in aereo", Anna non dice nulla, ma i suoi mega occhi mi fulminano ogni volta che le dico che devo andare, Silvia...Silvia è la donna migliore che potesse capitarmi e regge da sola la baracca, sopportando le mie assenze tra lavoro e bambine. Sopportando anche la mia assenza il giorno del suo compleanno. Davvero, che centrifuga. E tutto questo succedersi di eventi ti fa perdere memoria di ciò che ti è accaduto, di ciò che vorresti fissare in testa perché momento importante di crescita, di apprendimento, o anche solo perché divertente. Provo ogni tanto a "vomitare" su questo schermo queste esperienze per poi ogni tanto ritrovarmi a leggerle e ricostruirle, ma i tempi sono talmente serrati che riporto un quarto di quanto ho in testa

domenica 18 febbraio 2024

IL CANTO DEL MUEZZIN

 Il canto del muezzin

Quel canto che scandisce il tempo delle giornate nei paesi musulmani e che oggi mi accompagna su questi campi kuwaitiani, mi riporta sempre con la mente alla prima volta in cui mi ci sono imbattuto. Ero a Sarajevo, anno domini 2004, e dopo l’allenamento in quel mega campo vicino all’aeroporto con gruppi di bambini a raffica che mi tennero impegnato per circa tre ore, una volta rientrato in hotel, decisi di uscire per un allenamento. Ai tempi (madonnina che frase da vecchio) giocavo ancora, ero a caravaggio e il preparatore mi aveva dato un programma da seguire, per cui armato di foglietto con i tempi e il lavoro da svolgere, uscii un po’ intimorito, ma curioso, per esplorare la città. E dopo pochi passi, senza nemmeno aver concluso il riscaldamento, il timore si trasformò in estasi, al punto che promisi a me stesso che avrei visitato ogni paese, ogni città, ogni villaggio del mondo di corsa, attraverso quella modalità: correndo, esplorandone le strade in piacevole affanno aerobico. E proprio durante quel’ allenamento che ancora oggi ho bene in testa, partì questo canto: era il tramonto e il muezzin chiamava i fedeli alla preghiera, ma io ero assolutamente all’oscuro di tutto ciò e rimasi affascinato da quelle melodie che all’unisono, più o meno, alcune gracchiando per via degli altoparlanti difettosi, altre pulite, riempivano il cielo scuro della città.

E oggi, a distanza di vent’anni, lo stupore rimane il medesimo.

Questa volta sono in campo, al centro olimpico del kuwait, con 36 allenatori e circa 40 bambini, per dimostrare ai primi come proporre un allenamento “educativo” ai secondi, e quando il canto inizia non è sera, ma è il canto per la preghiera del pomeriggio (salat al sar credo si chiami, o qualcosa di simile), ma poco cambia. Mi distraggo un attimo, mi allontano con la testa da questo paese ricchissimo, in enorme crescita dopo la guerra di inizio anni 90 che ha segnato per decenni la popolazione e le città, ambizioso e in grande competizione con gli altri stati del golfo, per rivedermi sulle colline bosniache a correre e a godermi quella scoperta. E un sorriso di soddisfazione e il bisogno di ringraziare Dio per la fortuna che ho, accompagnano il mio “volo pindarico”. A vent'anni di distanza sono ancora qua, altri campi, altra maglia, ma stesso spirito. Se non è fortuna questa, non so cosa possa essere considerata tale